Venerdì, 26 Aprile 2024 01:41

Femminicidio: una cosa nuova, riflessioni da "Un mondo di Marionette" (1980)

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"Femminicidio": omicidio di un essere dotato di organo genitale femminile -> vagina. No, non è così semplice, e mi perdoniate per il linguaggio che non si addice ad una rivista culturale, ma che cos'è la cultura, e cosa non dovrebbe essere se non (ed anche) un momento di riflessione e di analisi, dove la riflessione spesso porta a trascendere, a contraddirsi, ma d'altronde se non ci si contraddice che ragionamento è? Al massimo un monologo, un soliloquio, un flusso di coscienza ben arginato, addomesticato artificialmente (ed artificiosamente) a non trascendere, a non andare oltre. Ebbene cari lettori: gli echi che precedono le urla nei film di Bergman, creano un dubbio sul fatto i sofferenti, urlanti personaggi del buon vecchio Ingmar che straziano l'aria ancor prima di urlare per davvero, siano voluti presagi di sofferenze incubate nel subcosciente, scherzetti del tecnico del suono, falle del file, o sapiente comunicazione del loro atavico disagio? Temo non ci sia dato sapere. E chi dai manuali poco o nulla si è nutrito, affidando intero il proprio senso critico all'ispirazione non può che sentirsi irreversibilmente folle in "un mondo di marionette" che è il film dal quale sarebbe dovuta scaturire la mia (tardiva, lo ammetto) riflessione su questa cosa nuova: il femminicidio. Sarebbe, perché la sostanziale vera radice della riflessione prende le mosse da una riflessione sull'etimo. Una riflessione sull'etimo che esiste ancor prima del 1848 quando uccidere una donna cominciò a consistere un reato giuridicamente perseguibile, una parola che voleva contrapporsi ad homicide. Col tempo la parola ha caratterizzato l'omicidio di una donna legato a questioni di genere, alla manifestazione ultima di un mondo dove l'uomo è al centro e la donna angelo della cura e dell'accoglienza deve sottostare ai disturbi di questa fragilissima ed insicura malcelata figura di bambino indifeso che si nasconde dietro l'uomo. "Tutte le strade sono chiuse" è la battuta più volte pronunciata da Peter Egermann, uno stimato uomo d'affari che uccide per strangolamento una prostituta sottoponendola successivamente a sodomia. Nelle scene successive apprendiamo che Peter terrorizzato dalla paura e dal desiderio al contempo di uccidere la moglie da ormai due anni, si confida col suo psichiatra, per niente estraneo alle sue vicende coniugali che tra l'altro intrattiene una relazione sessuale con sua moglie. Non è di difficile intuizione che l'omicidio della prostituta reca in sé una valenza simbolica specie quando scopriamo da Tim (omosessuale innamorato di Peter) socio in affari di Katarina Egermann che la prostituta porta il suo stesso nome. Da qui, da spettatori, assistiamo al progressivo disvelamento della personalità, della vita, e in ultima analisi dei vagheggiamenti di Peter che alla fine viene messo in un carcere psichiatrico. Una vita straziata da un'infanzia confusa dal rapporto morboso con una madre egoista e superficiale, fino ad ottenebrare del tutto con la conoscenza di Katarina (figura che alla fine del film si accosta a quella della madre per la sua freddezza e superficialità) ogni impulso di sanità mentale nel nostro protagonista, al punto che davvero ogni strada si chiude.

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