Dove cadono le ombre: alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia In evidenza

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Valentina Pedicini alla regia, con questo film, presentato In concorso alla settantaquattresima Mostra Internazionale del cinema di Venezia, ci mostra la storia di una donna, Anna, che lavora come infermiera in una casa di riposo per anziani, scandendo il ritmo di una routine asettica e sempre uguale caratterizzata da una rigida fedeltà alle regole da rispettare. Un'attenzione ai dettagli, lo straniamento e i movimenti cadenzati dei protagonisti, lasciano presagire una natura teatrale, nell'accezione positiva che l'aggettivo comporta, con una sublime direzione della fotografia. I flashback continui di lei ci riportano al tempo in cui la stessa struttura ospitava un orfanotrofio, e la stessa Anna bambina, con Gertrud (la dottoressa che capeggiava gli esperimenti) Franziska, amica mai dimenticata, e Hans, (come lei unico testimone delle brutture subite) ancora presente al suo fianco come assistente, più volte descritto come idiota nel corso del film, anche se verosimilmente costretto dai trattamenti e i danni permanenti che ne conseguono a piegare la sua psiche fino a permanere in uno stato psicologicamente infantile per il resto dei suoi giorni. Anna e Hans insieme ripercorrono le tappe di quel passato doloroso, ricercandone riscontri e prove nel giardino e nei locali freddi della struttura in cui si trovano, mettendone insieme i pezzi, o forse le ossa, dei cadaveri delle loro infanzie andate perdute. Anna col pensiero rivolto al passato cullando gli oggetti che quei ricordi confermano: gli avvenimenti, l'affetto e la vicinanza con Franziska e il male inspiegabile dei trattamenti. Fino a quando un giorno una nuova ospite sembra fermare il tempo: è Gertrud ormai invecchiata e sdentata entra a far parte degli abitanti della struttura. Passato e presente si incontrano e sembrano viaggiare paralleli a ruoli invertiti. Anna non sembra avere desideri di vendetta, ma non capisce. E alla fine la rivelazione fondante del film: Anna è una discendente della dinastia Bear della popolazione nomade degli Jenisch, i cosiddetti zingari bianchi, che si fanno risalire dalle antiche popolazioni dei celti, vittime di un genocidio tra il 1926 e il 1986 da parte della confederazione elvetica, presentando come pretesto, la volontà di rieducare tutti i bambini Jenisch per estirpare in loro la natura del nomadismo. Una lenta agonia perpetrata in sessant'anni di storia, mascherata da iniziativa filantropica, che nascondeva esperimenti di eugenetica alla pari della Germania nazista. Una storia ispirata dall'opera della poetessa Mariella Mehr, una delle vittime, che ha avuto poco riscontro mediatico, a testimonianza del fatto che di alcune cose non si può parlare, ma probabilmente l'eco di questa storia dimenticata risuonerà ancora, a confermare che dal passato non si può sfuggire.

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