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La Jihad e la morte

Pubblicato in News

C'è solo istinto di morte nella Jihad dei musulmani radicali? Praticamente sì. Almeno, stando a un interessante saggio del francese Olivier Roy -che insegna all'Istituto Universitario Europeo di Firenze- dal titolo: "Jihad and Death: The Global Appel of Islamic State", Ed. Hurst 2017. La tesi di partenza è l'assimilazione della violenza nichilista jihadista, così come si è manifestata negli ultimi due decenni, alle gesta del movimento anarchico del XIX sec.. Jihad e terrorismo formano un impasto composito di terrore globalizzato al di là dei confini nazionali, in cui i bersagli privilegiati sono sia luoghi altamente simbolici, sia persone del tutto innocenti. Senza precedenti, tuttavia, è il modo in cui, assecondando il loro gesto stragista, i terroristi sacrificano le proprie vite, dicendoci: "Noi amiamo la morte tanto quanto voi amate la vita", in base all'assunto di Osama Bin Laden. E la morte per costoro non rappresenta più una mera eventualità costituendo la ragione stessa del piano stragista, in quanto anche per gli jihadisti dello Stato Islamico l'attacco suicida è il fine ultimo del loro impegno politico-religioso. In realtà, la tradizione musulmana, pur riconoscendo il merito del martirio a chi muoia in combattimento, nondimeno non premia coloro che perseguano a ogni costo la propria morte, perché ciò costituisce un'indebita interferenza rispetto alla volontà di Allah. Questa attitudine a scegliere la morte è indissolubilmente legata al fatto che lo jihadismo, almeno qui in Occidente (come pure nel Magreb e in Turchia), è un movimento di giovani che non solo nasce indipendentemente dalla religione e dalle tradizioni dei propri padri, ma ha radici in profondità nella cultura giovanile stessa. Ovunque ricorra quest'odio generazionale, tende ad assumere una forma iconoclastica. Vengono annientate vite umane così come si distruggono statue, luoghi, oggetti di culto e libri. Ovvero, si persegue in ogni modo la cancellazione della memoria stessa. "Fare tabula rasa. Cancellare il passato" è ciò che contraddistingue e assimila il fine ultimo di Mao, delle Guardie Rosse e dei combattenti dell'Isis. Quest'ultimo, sebbene proclami la missione di restaurare il Califfato, di fatto rende impossibile con il suo nichilismo una qualsivoglia soluzione politica, o il semplice avvio di negoziati e tanto meno consente la realizzazione di una società stabile con confini sicuri e riconosciuti. Si tratta, nel caso del'Isis, del mito di un'entità ideologica che vuole espandere oltre ogni limite la propria sfera d'azione territoriale. E questo spiega l'impossibilità dei suoi adepti di dedicare sé stessi al bene delle comunità musulmane locali, scegliendo come unica alternativa un percorso di morte. La sistematica associazione con la morte è la chiave di volta per capire l'attuale radicalizzazione, in cui lo spazio centrale è occupato dalla dimensione nichilista. Ciò che seduce e affascina è l'idea della rivolta pura. La violenza, cioè, non è più un mezzo ma il fine stesso dell'azione. L'Isis non ha inventato il terrorismo, ma lo ha solo derivato da un terreno di coltura preesistente. La sua trovata geniale, però, è stato il modo con cui ha offerto ai suoi giovani adepti volontari una struttura della narrazione, una cornice scenografica all'interno della quale ciascuno di loro potesse realizzare le proprie aspirazioni. La cosa in assoluto migliore per l'Isis, nel caso di morte del suo miliziano -il disturbato, il vulnerabile, il ribelle senza una causa per lottare- è che non risulti coinvolto nel movimento, ma che sia semplicemente preparato a dichiarare la sua fedeltà al Califfo, cosicché il suo atto suicida vada a far parte di una narrazione globale. Dice Roy: "Dobbiamo capire che il terrorismo non nasce dalla radicalizzazione dell'Islam, ma dalla 'islamizzazione del radicalismo'. Lungi dall'esonerare l'Islam, questo aspetto obbliga tutti noi a chiederci perché e come la ribellione giovanile abbia trovato nell'Islam il paradigma per la sua rivolta totale. Intendo sostenere che la radicalizzazione della violenza non sia la conseguenza dell'estremismo religioso, anche se non di rado ne segue le orme e prende in prestito analoghi paradigmi [...] Agli jihadisti non interessa veramente realizzare una società islamica: non sono andati in Medio Oriente per vivere, ma per morire! E questo è il vero paradosso: i giovani fondamentalisti non sono degli utopisti, ma dei nichilisti."