Venerdì, 17 Maggio 2024 06:14
Pasquale Merola

Pasquale Merola

Ci sono prodotti che rappresentano pericoli anche gravi se usati in modo non corretto. Come spiega Health, ci sono prodotti capaci di migliorare il nostro stato di salute, ma altri possono avere l'effetto opposto, se usato in modo non corretto. Vediamo alcuni oggetti o azioni che compiamo quotidianamente come possono diventare fonte di guai.

1 Spugna per la doccia - Meglio evitare di usarle se si hanno ferite o tagli anche piccoli, perché aumenta il rischio d’infezione. Per limitare il problema, scegliere spugne fatte con fibre naturali con enzimi che controllano la crescita dei batteri, strizzare bene la spugna dopo l'uso e conservarla in un posto fresco e asciutto.

2 Deumidificatore - Se non viene lavato e asciugato bene, il deumidificatore può trasformarsi in un nemico per la nostra salute

3 Cotton fioc -  Attenzione perché il cerume serve a proteggere la parte interna dell’orecchio dalla polvere e altri agenti patogeni. Per rimuoverlo è sufficiente pulire la parte più esterna dell’orecchio con un tovagliolo.

4 Sapone antibatterico - Una ricerca condotta dall’Università Elaine Larson ha osservato il livello di batteri nelle case delle famiglie che negli ultimi dieci anni hanno usato questo prodotto e in quelle che invece non l’hanno mai usato. Le famiglie che non usavano il sapone non avevano una maggiore predisposizione a contrarre malattie infettive.

5 Frullatore - Secondo un rapporto dell’Organizzazione per la Salute e la Sicurezza dei Prodotti di Consumo, NSF, i frullatori sono il terzo oggetto più sporco delle cucine.

6 Strumenti per la manicure - Molti batteri vivono sulla pelle, se non laviamo accuratamente gli attrezzi per prenderci cura delle nostre unghie, rischiamo che i batteri, accumulati su questi, si trasferiscano sulle nostre mani.

7 Paletta di gomma - La gomma dell’utensile, secondo la classifica di NSF è il primo oggetto più sporco della cucina.

8 Peluches - Se vi bambini si ammalano spesso è in parte anche colpa loro.

9 Dentifricio sbiancante - La pasta granulosa di cui sono composti rimuove le macchie sui nostri denti, ma allo stesso tempo rimuove anche lo smalto che li protegge.

10 Le sedie - Stare a sedere troppo tempo provoca danni alla schiena e problemi alle articolazioni,

 

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Di Daniela D'Angelo Una silhouette alta circa 1,75 cm, una pelle ambrata, occhi da cerbiatta color marrone, capelli lunghi di un castano intenso: ecco come si è presentata Ashlam El Brinis sotto i riflettori di Miss Italia 2015, il concorso di bellezza nazionale più anelato tra le giovanissime, riuscendo a qualificarsi tra le prime 33 finaliste.Giovanissima, ha da poco compiuto 20 anni il 25 luglio scorso, decide di voler raggiungere un sogno: quello di diventare una Miss, un sogno che anela dall'età di 6 anni, da quando fin da piccina osservava in televisione le aspiranti Miss sfilare sulla passerella e cercando di  immedesimarsi in quel mondo con la fantasia, tipica di quell'età. La fantasia negli anni ha ceduto il passo alla realtà, al coraggio e alla voglia di mettersi in gioco, ed è così che Ashlam El Brinis sale su quella passerella, che ha sempre visto tramite un freddo schermo televisivo, mentre adesso per lei è così vicina da potervi muovere con eleganza i primi passi, non per nulla ha ottenuto la fascia di Miss Eleganza Friuli Venezia Giulia che le ha permesso di vedersi aperte le porte del concorso nazionale. Ashlam nasce a Padova da genitori di origine marocchina ed è musulmana. Tanto è bastato per poter gettare degli sputi d'inchiostro su quel sogno tanto ambito dalla ragazza, tanto è bastato per far oscurare la sua bellezza, scalzata così delle forti polemiche.

“La Miss di pelle nera” così è stata soprannominata da chi ha ritenuto che la giovane non possedesse i requisiti per accedere al concorso, nonostante i suoi genitori vivano nel Veneto da ormai più di venti anni, inoltre non è stata risparmiata neanche dagli attacchi e dalle minacce  da parte di chi ritiene che la ragazza sia andata contro gli insegnamenti di Maometto, disonorando la stessa religione d'appartenenza nel decidere di mostrarsi davanti a milioni di persone in tutta la sua bellezza senza indossare il velo e sfidando dunque apertamente l'Islam.

In realtà nonostante la famiglia sia musulmana,  la ragazza non è praticante anzi è sempre stata guidata dai valori occidentali, si è diplomata, infatti, al linguistico di Camposampiero e adesso convive a Montebelluna con il fidanzato Cristian.

Ashlam  nonostante le crude e pungenti parole ricevute sui social continua a mostrare il suo splendido sorriso, affermando di non voler sfidare assolutamente  la cultura  islamica, come ha tenuto a precisare di fronte a una domanda dei giurati. << Ognuno è libero di scegliere e vivere la religione a modo proprio. -spiega Ashlam- Sono consapevole che ci sono persone ancora conservatrici che potrebbero pensare che è sbagliato quello che faccio. Ma sinceramente non mi interessa, perché ho l'appoggio della mia famiglia e questo mi basta >>.

Ed è proprio grazie alle persone che la circondano che la ragazza ha deciso di proseguire a testa alta quella passerella, senza mai abbassare lo sguardo. Una passerella incoraggiata anche e soprattutto dalla nonna  Halima, che vive a Rabat, ma che nonostante ciò segue la nipote in ogni attimo della sua vita,  << L'Islam è nei nostri cuori, non nei vestiti >>, le ha commentato tramite il social facebook.

Parole che possono evocare una similitudine con il pensiero agostiniano nella tradizione cristiana “Credo ut intelligam , intelligo ut credam”, ossia solo chi ha la fede può applicare la ragione fino in fondo , nel migliore dei modi , ed è solo con la ragione che si può comprendere l' atto di fede : come se la ragione illuminasse la fede. Un pensiero che può, ma soprattutto deve, trovare un punto di fioritura anche in una società moderna come la nostra, una società che è sì progredita negli anni grazie alle scoperte scientifiche e tecnologiche ma che ha bisogno di aprire le porte anche a una innovazione culturale e intellettuale.

 

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Di Rosa Meola È, indubbiamente, il nuovo tormentone del periodo. Se non lo avete visto, ne avrete sicuramente sentito parlare in ogni dove. E se non ne avete sentito ancora parlare, ne leggerete ora. Ebbene sì, spendiamo anche noi due parole su “Inside out”, il nuovo film di Pete Docter, già autore di altri titoli Pixar come Monsters & co., Wall-e, Up.
Per chi ancora non conoscesse la storia, il film racconta la vicenda della piccola Riley, bambina del Minnesota che si trasferisce a San Francisco con la famiglia; ma non vi aspettate nessuna strabiliante avventura: la vicenda descritta dura poco più di qualche giorno ed è quasi tutta ambientata nel cervello di Riley, dove cinque emozioni principali -Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia- indirizzano gli stati d’animo da una plancia di comando, gestiscono la costruzione e lo stoccaggio dei ricordi, reagiscono secondo la loro natura agli stimoli esterni in un momento così critico per la bambina.
Il nodo critico della storia è rappresentato dal momento in cui Gioia e Tristezza, in questo corto circuito emotivo vissuto dalla ragazzina, finiscono per errore da un’altra parte del cervello. Il film racconta la storia parallela del loro viaggio di ritorno verso il quartier generale e di quello di Riley che cerca di tornare felice com’era nel Minnesota, sentendosi sperduta a San Francisco.
Chi lo ha visto, probabilmente per una buona parte del film si sarà chiesto cosa ci sia di così diverso e particolare in questo film rispetto ad altri. Come sarà probabile che gli stessi si siano alzati dopo i titoli di coda col fazzoletto zuppo, degno del miglior film strappalacrime, e con la sensazione di aver fatto un pianto bello, profondo e giusto.
A questo punto la domanda sorge spontanea: ma che diavoleria è mai questa?
La spiegazione è da ricercare nella matrice psicologica del film. “Inside out”, infatti, racconta le emozioni attraverso una sintesi delicata tra la fisiologia del cervello, le strutture della psiche e una vicenda personale che produce immedesimazione nel pubblico: i piccoli vedono se stessi, i grandi vedono se stessi qualche anno prima oltre ai piccoli che hanno intorno in sala, figli compresi.
Il film utilizza in maniera semplice e chiara concetti della teoria cognitiva della mente e delle teorie psicoanalitiche : da una parte inconscio e forze profonde, dall’altra emozioni, pensieri e memoria di lavoro. È tutta una grande rappresentazione allegorica della mente umana in cui ciascuna emozione è rappresentata da un simpatico cartoon, con un colore ben definito che attira i piccoli e fa sorridere i grandi.
Ciò che colpisce maggiormente, è il fatto che tutta la bonaria confusione e l’ilarità di questi simpatici pupazzetti, non è altro che il riflesso di ciò che succede nella nostra mente, di quel ciclone di emozioni che si agitano dentro di noi ogni qual volta ci troviamo a fronteggiare nuove situazioni o cambiamenti; confusione dalla quale spesso fuggiamo terrorizzati - con tutta una serie di disagi psicologici che oggi più che mai sono in continuo aumento tra la popolazione- e che invece dovremmo semplicemente accettare, al fine di poterla fronteggiare.
Perché sono le cose dentro di noi, insieme alle esperienze che facciamo, che ci fanno diventare quello che siamo.
In realtà, l’elemento davvero rivoluzionario del film è la caduta di uno dei più grandi stereotipi narrativi del cinema e della letteratura: l’idea secondo cui il sorriso gioioso, l’allegria o la realizzazione positiva di qualsiasi proposito, siano le uniche azioni e reazioni su cui focalizzarsi per essere felici.  Tutti vorrebbero essere felici, e da genitori, il desiderio è che lo siano anche i propri figli, ma purtroppo non è sempre così. Ci sono anche delusioni, senso di perdita, problemi. Le altre emozioni esistono proprio per aiutarci a affrontare la complessità della vita ed ognuna ha il proprio peso e valore.
Il legame fra gioia e tristezza è, nello specifico, uno dei temi principali del film: in un’epoca in cui, più che nella ricerca, ci si affanna soprattutto nell’ostentazione -spesso forzata- della felicità, è raro trovare film che insegnino a voler bene alla tristezza, in maniera leggera e delicata, senza cadere in complicate teorie esistenzialiste e decadentiste secondo cui la gioia è solo ipocrisia.

Il tutto è condito da un po’ di commedia in cui, quando si ride, si ride di gusto, improvvisamente. Così come si piange.
E, alla fine, si esce con la consapevolezza che ci si può permettere tanto l’una quanto l’altra reazione perché è solo un film, un gioco, è finzione. Ma mica poi tanto.

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Di Anna Zaccariello

È questa l’affermazione pietra dello scandalo che in questi ultimi giorni, ha reso protagonista il primo ministro israeliano di una bufera di quelle che da sempre, di tanto in tanto, e puntualmente agitando l’opinione pubblica mondiale, oltre al mobilitarsi delle istituzioni politiche, tra cui il portavoce di Angela Merkel che afferma: “ Non si deve cambiare e deformare (ulteriormente ndr.) la storia e  l’oggettività della responsabilità dei tedeschi per l’accaduto”.  Anche gli storici si sono agitati all’insegna del  “I politici facciano i politici,” sostenendo che tale affermazione dia adito ad incentivare a discorsi ed opinioni propri dei negazionisti che per altro sono bandite in diverse costituzioni europee. C’è però inoltre da segnalare che tale affermazione, tale testimonianza non è inedita da Netanyahu che l’avrebbe già detta nel 2012 al Knesset (il parlamento monocamerale di Israele) definendo Husseini “uno dei principali architetti della soluzione finale”. Fiumi di inchiostro sono stati spesi su tale argomento, su come si sia giunti a tale conclusione, e numerose versioni si sono succedute, gli storici  si attengono a quella ufficiale che prevede interna al partito nazista tale decisione, con l’avviamento dell’ Operazione Reynhard, ad opera di Reynhard Heydrich, stretto collaboratore di Himmler e capo del RSHA, consegna la bozza del piano con cui realizzare in tutta l’Europa controllata dalla Germania la “Soluzione Finale” al cosiddetto “problema ebraico”, e diretta la conferenza di Wannsee , venne nominato da Hitler  Governatore del Protettorato di Boemia e Moravia. Quindi secondo quest’ottica l’affermazione del Primo Ministro sarebbe totalmente fuorviante soprattutto se si tiene conto del fatto che quando ci fu l’incontro tra Hitler e il Muftì (pur essendo alleati) lo sterminio aveva già avuto inizio. In ogni caso non si può certamente non tener presente che la persecuzione ebrea cominciò in sordina, dapprima con le Leggi di Norimberga, le misure antiebraiche furono propinate al popolo tedesco, fino al novembre del 1938 a piccole o grosse dosi, ma sempre al momento più opportuno, si può infatti parlare di “fasi della Shoah” che hanno avuto exploit iniziali in eventi che sono ricordati per la loro grande portata ed efferatezza come la “notte dei cristalli” scatenata da Goebbels che insieme a Goering collaborava a stretto contatto con Hitler. Eichmann oltretutto nella sua deposizione nel processo che si tenne a Gerusalemme del 5 Aprile del 1961 dichiarò di aver preparato un piano di evacuazione degli ebrei di tutta Europa in Madagascar piano che per altro non fu mai attuato,(gli ebrei furono successivamente deportati in Polonia) ma che Eichmann aveva rubato ad alcuni sionisti antisemiti ( e oltretutto la lettura del libro Lo stato ebraico di Theodor Herz)lche da tempo vagliavano territori in cui trasferire gli ebrei.

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Che la nostra sia una società fatta di estremi e antipodi è ormai noto a tutti. Ciò che probabilmente ai più sfugge, è l’ennesima contraddizione sociale che, stavolta, forse tanto patologica non è.

Se da un lato, infatti, le notizie di cronaca ci informano sul continuo uso e abuso di sostanze stupefacenti e alcoliche tra i più (e meno) giovani, dall’altro tra le stesse notizie ne ritroviamo una parecchio singolare, quanto di “tendenza”: stiamo parlando della moda dei “sober parties”.
Il nome già dice qualcosa su queste “feste sobrie”, ossia eventi alcool free che stanno conquistando i giovani under 25 di tutto il mondo.
Il bere alternativo sembra ormai essere la nuova moda che dilaga in America, Australia ed Europa. Questo sano e nuovo –ma nemmeno poi tanto- modo di divertirsi, si ispira al “teetotalisme movement”, nato sin dai primi dell’Ottocento per salvaguardare e tutelare le generazioni dall’abuso di alcool. A Londra, a Stoccolma, a New York e a Sidney sono nati pub, locali e bar che promuovono e sostengono questo modello culturale, organizzando serate che si spera siano piacevoli non solo perché è l’alcool a renderle tali.
C’è da dire che, nonostante la cronaca sembri affermare il contrario, forse il modello culturale sta davvero cambiando: bere alcool non viene più associato all’essere trasgressivi o all’avere successo. Al contrario, i giovani sembrano più consapevoli che, chi beve, in realtà sta vivendo ed esprimendo un disagio, con la drammatica conseguenza che spesso tali soggetti vengano addirittura emarginati dal gruppo, in quanto elemento disturbante e perturbante.
In una ricerca dell’università di Sidney, gli analisti hanno fatto arrivare messaggi personalizzati su Facebook a un campione di studenti universitari del primo anno, chiedendo notizie sul loro comportamento riguardo il consumo di alcol e dando informazioni circa le conseguenze fisiche e sociali del fenomeno: i risultati hanno dimostrato che chi ha ricevuto il feedback, in media, ha dimezzato il consumo di bevande alcoliche da 40 a 20 al mese.
I social network hanno un ruolo centrale anche per la diffusione di questi “alcool-free events”: sono nate addirittura app per gestire appuntamenti, sottoscrivere regole di comportamento e anche fare business con questa modalità.
Clean Fun Network ne è un esempio: è sito web fondato dall’imprenditore Jimmy Hamm che riunisce la sober community. C’è anche una app mobile che permette agli iscritti di organizzare incontri nella propria città in locali in cui, laddove prima si bevevano canonici distillati o cocktail, oggi si può trovare una selezione di attività alternative, quali ping pong, biliardino, tornei di scacchi, di dama e Scarabeo, che si rivolgono a chi ha meno di 30 anni.
A Stoccolma si sottoscrivono addirittura dei “manifesti” nei club nei quali ci si diverte sobriamente. A Södra Teatern, nel quartiere Södermalm che è tra i più gettonati dai giovani svedesi, per entrare è obbligatorio un test all’etilometro che deve risultare negativo, in caso contrario si viene gentilmente allontanati.
Ancora, Catherine Salway, proprietaria di un bar a Notting Hill chiamato in maniera provocatoria “Redemption”, ha cercato di attrarre i giovani verso tale pratica proponendo loro una sfida: “siete in grado di divertirvi, rilassarvi, essere voi stessi senza ubriacarvi?”. Cosa che, con ogni probabilità, è forse ciò che più terrorizza i giovani d’oggi, spingendoli ad annegare se stessi in uno o più bicchieri di vodka.
Essendo però la nostra società nota, oltre che per le innumerevoli contraddizioni, anche per la perenne insoddisfazione, non potevano mancare le polemiche: da un lato, c’è chi spera che tale tendenza si diffonda anche in Italia, dall’altro c’è chi la considera un ritorno al vecchio proibizionismo degli anni ’20, o chi si chiede dove sia finita la fiducia nelle capacità individuali di autocontrollo.
Lasciare che ci si ubriachi per divertirsi oppure demonizzare l'alcool? Questo è il dilemma.
Per trovare una via d’uscita, più che risalire alle teorie ottocentesche, forse dovremmo andare ancora più a ritroso e ricordarci che secondo i latini “in medio stat virtus”: eliminare gli estremi appare dunque difficile, quanto controproducente. Guardare l’ampio ventaglio di opportunità – con curiosità o con scetticismo, a voi la scelta- attendendo i risultati di tali proposte, resta probabilmente la scelta più saggia.
MEOLA ROSA

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