Domenica, 05 Maggio 2024 17:49

La Cassazione “reinterpreta” il diritto tributario e il fisco si abbatte sui lavoratori autonomi

Pubblicato in Economia

Comincia a mietere vittime innocenti in tutta Italia la sentenza 23121 del 2013 emessa dalla Corte di Cassazione. Una beffarda ed insolita assonanza fonetica tra le parole “costrizione” e “cassazione” induce i malcapitati lavoratori autonomi attualmente raggiunti da avvisi di pagamento emessi dalla “massima” agenzia preposta alla gestione delle entrate fiscali ad assimilare idealmente i due termini succitati. Alla luce della suddetta sentenza spiace non poco dover constatare la radicale demolizione di alcuni principi basali celebrati dai manuali universitari di diritto tributario quali l’articolo 53 della Costituzione, il principio di legalità e il divieto della doppia imposizione. In definitiva il diritto tributario statuisce che lo stesso versamento può essere richiesto una sola volta, solo in base alle risorse in effettivo possesso del contribuente e, soprattutto, in forza di una norma giuridica esistente piuttosto che di una “sopraggiunta interpretazione”. Invece è proprio l’interpretazione delle norme tributarie esistenti voluta dalla“Suprema” Corte a primeggiare sul diritto e ad avere la meglio sulla prassi consolidata. Un’interpretazione orientata a catalizzare ed estendere ancora una volta la longa manus del fisco. In forza dei suddetti sacrosanti capisaldi giuridico tributari e della pratica  non è ammissibile la responsabilità del lavoratore autonomo, detto sostituito d’imposta, in ordine al mancato versamento della ritenuta d’acconto relativa alle prestazioni professionali erogate al datore di lavoro (definito sostituto d’imposta). Difatti, tale onere grava unicamente in capo al sostituto (datore di lavoro) per quanto concerne la sostituzione a titolo d’acconto, tipica dei rapporti di lavoro autonomo e dei redditi di impresa. E’ noto che la ritenuta d’acconto rappresenta la decurtazione che il datore di lavoro (sostituto d’imposta) scorpora dal compenso corrisposto al lavoratore autonomo (sostituito d’imposta) per versarla successivamente all’erario a titolo di acconto di imposta sui redditi del sostituito stesso, ovvero del lavoratore autonomo. La coobbligazione del sostituito di imposta (lavoratore), ossia la sua corresponsabilità in ordine al versamento delle eventuali ritenute, viene giuridicamente ammessa solo in caso di sostituzione a titolo di imposta per negligenza del sostituto. Salvo il diritto del sostituito (lavoratore) di rivalersi sul sostituto (datore di lavoro) per gli oneri versati. E’ un dato di fatto, però, che la coobbligazione appena precisata, detta anche solidarietà, non appartenga al rapporto di lavoro autonomo correlato ad una sostituzione a titolo d’acconto, bensì a quello di lavoro dipendente collegato, invece, ad una sostituzione a titolo d’imposta. La  vischiosa commistione fra le due distinte situazioni giuridiche summenzionate per quanto riguarda le obbligazioni di sostituto e sostituito si configura come l’estensione di un’eccezione da una fattispecie giuridica ad un’altra, completamente differente per natura e contenuto. Secondo addetti ai lavori, esperti e giuristi la linea della Cassazione  evoca il profilo di una rilettura peggiorativa del diritto che confonde e mistifica i ruoli di obbligati e coobbligati, al mero scopo di predisporre succulente occasioni e pretestuosi presupposti per moltiplicare esponenzialmente i patrimoni aggredibili dal fisco e venire incontro alle sue fameliche esigenze di cassa. Anche Il Sole24Ore è del medesimo avviso. Purtroppo, le “superlative” istituzioni italiane al danno aggiungono con piacere anche la beffa dal momento che i lavoratori autonomi raggiunti dai singolari avvisi di pagamento suddetti crescono a dismisura in Campania e nel resto della penisola con sommo disappunto di commercialisti e insigni docenti universitari di diritto tributario, come il professor Dario Stevanato dell’Università degli Studi di Trieste. Le disgrazie, infatti, non vengono mai sole e gli obblighi di versamento ascritti ai lavoratori autonomi per quanto concerne le ritenute d’acconto, si riferiscono spesso a prestazioni di lavoro erogate ma non ancora retribuite dai rispettivi datori di lavoro (sostituti d’imposta). E’ ragionevole credere che le suddette retribuzioni spettanti agli sventurati lavoratori autonomi, in molti casi, non verranno mai riconosciute visto e considerato che ditte e aziende obbligate hanno intrapreso istanze di fallimento e procedure concorsuali. Secondo noti giuristi italiani si tratta di un paradosso che appone un’ipoteca indigesta sui diritti dei contribuenti, ancor più vulnerabili di prima. Sarebbe lecito  auspicare che i succitati avvisi di pagamento potessero essere in qualche modo impugnati dai lavoratori autonomi in sede di contenzioso, dinanzi alle commissioni tributarie, al fine di scongiurare gli indebiti versamenti richiesti dal fisco. Ma appare davvero improbabile che questa prospettiva abbia esito fausto. Difatti, l’impugnazione degli atti in oggetto impone, comunque, il versamento di un terzo della somma richiesta e culmina quasi certamente in un giudizio allineato a quanto stabilito dalla stessa Corte “Suprema”. E’ verosimile e legittimo attendersi che la definizione interpretativa della Cassazione  possa imbattersi prima o poi nella censura del diritto costituzionale, ma alla “Suprema” Corte la ventilata eventualità potrebbe non tangere minimamente. Secondo molti intellettuali le  “innovative” tendenze della Corte potrebbero avvalersi del supporto incondizionato dello Stato e dei suoi indistinti apparati, per reperire nuova liquidità  a costo zero. Del resto l’urgenza dello Stato italiano è sempre stata quella di drenare risorse cospicue atte a fronteggiare l’onere siderale dei debiti contratti nel tempo. Una priorità che ha legittimato manovre finanziarie note per aver indotto il suicidio da insolvenza di diversi contribuenti inermi, nell’omertoso silenzio dei media. Non è certo intenzione dell’autore affermare che talune dinamiche giurisprudenziali e certi accrocchi istituzionali evocano  gli articolati meccanismi di giochi truccati ad arte per indurre la sconfitta degli ignari concorrenti turlupinati. Piuttosto è lecito domandarsi se lo “Stato di diritto” tanto propagandato dall’ordinamento sia ancora degno di un minimo di credibilità. Come è doveroso chiedersi per quale motivo molti italiani hanno l’impressione di veder affondare la democrazia nella cosmesi giuridica e in un tricolore più lacero, lercio, bisunto e disconosciuto che mai. Certo è che laddove non esiste certezza del diritto si sviluppano, di riflesso, anomale ritorsioni disfunzionali quali evasione fiscale, elusione, lavoro sommerso ed emigrazione, rispetto alle quali è difficile ammettere l’estraneità delle istituzioni.  Nella civile e morigerata Bulgaria, dove molte migliaia di connazionali stanno scappando per sfuggire alle grinfie di furfanti impomatati e riscattare orgogliosamente la propria dignità, tutto questo non potrebbe accadere. Corre voce che non è pioggia quella che bagna il capo di troppi italiani, ma fetida e limacciosa urina: non aprire l’ombrello potrebbe costare caro.

 

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