Mercoledì, 30 Aprile 2025 06:44

Napoli 1944, fuga in avanti di Togliatti, compromesso sul futuro

Pubblicato in Politica

La crisi politica apertasi a Napoli nel marzo del 1944, e culminata nella formazione del secondo governo Badoglio, segna un passaggio cruciale nella storia costituzionale e politica dell’Italia contemporanea. A differenza delle narrazioni conciliatorie che ne hanno fatto un passo necessario verso la democrazia, la lettura offerta dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nel numero clandestino di Avanti! del 15 maggio 1944, restituisce il senso autentico di uno scontro politico e ideologico aperto, in cui si confrontano due concezioni radicalmente opposte della transizione post-fascista: quella della continuità istituzionale, sostenuta dalle forze monarchico-liberali e accettata anche da parte del fronte antifascista, e quella della rottura rivoluzionaria in nome della sovranità popolare e della giustizia sociale: <<La soluzione data a Napoli alla crisi diverge dal criterio che fino alla svolta comunista. era comune a tutti i partiti antifascisti. La presidenza Badoglio e l'investitura regia fanno pesare sul nuovo governo influenze reazionarie che la democrazia italiana deve eliminare se non vuole che si rinnovi, in condizioni aggravate, il dramma del Risorgimento, culminato nell’accaparramento monarchico della iniziativa rivoluzionaria e popolare. In un paese come il nostro, dove la libertà è da un secolo sacrificata alla unità, importa di mantenere fermamente il principio dell’intransigenza verso le forze che non sono schiettamente democratiche>>. Il nuovo governo, formalizzato il 22 aprile 1944, fu presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, già figura organica al regime fascista e simbolo della disfatta dell’8 settembre. Il suo gabinetto includeva personalità di peso provenienti da tutti i principali partiti antifascisti: Benedetto Croce, Ivanoe Bonomi, Meuccio Ruini, Carlo Sforza, Alcide De Gasperi e soprattutto Palmiro Togliatti che, di ritorno dall’Unione Sovietica via Algeri, assunse il ruolo di vicepresidente del Consiglio e ministro senza portafoglio, siglando di fatto l’adesione del Partito Comunista Italiano al compromesso monarchico. Fu proprio la cosiddetta svolta di Salerno”, annunciata da Togliatti il 13 marzo 1944, a rappresentare il momento di maggiore frattura, sia all’interno del movimento operaio che nella dinamica politica generale. Contrariamente a quanto ci si attendeva da un partito di ispirazione rivoluzionaria e repubblicana Togliatti, l’uomo al quale Mosca sussurrava all’orecchio, propose di rinviare la questione istituzionale a dopo la fine della guerra, subordinando la strategia dei comunisti Italiani alla necessità dell’unità nazionale e della vittoria militare, rinunciando alla pregiudiziale dell'abdicazione del re in quanto ritenuta non superabile, affermando contestualmente che i comunisti Italiani non avrebbero posto alcuna pregiudiziale contro Badoglio con i quale erano disposti a collaborare (!). Un completo rovesciamento delle posizioni sino ad allora sostenute dai comunisti e gli effetti non tardarono a manifestarsi. Questa fuga in avanti di un ambizioso quanto eterodiretto Togliatti venne giustificata come scelta tattica, ma fu vissuta da molti militanti come un tradimento dell’ideale rivoluzionario. <<Senonché quando la politica si cristallizza attorno a problemi di tattica, avviene inevitabilmente ciò che è accaduto a Napoli in pratica si finisce per fare una transazione della transazione di una transazione. È necessario che l’antifascismo passi da una fase negativa ad una fase positiva, dalla negazione alla affermazione. A ciò lo invita la situazione obbiettiva del paese e la maturità di cui le masse danno esempio quotidiano nelle regioni occupate. Il fascismo appartiene ormai al passato della nostra storia. La repubblica sociale di Mussolini è un mostriciattolo in putrefazione da cui esala un lezzo di cadavere. Tutto ciò che riveste ancora la camicia nera, insozzata di fango e di sangue, conta soltanto in funzione delle baionette e delle mitragliatrici tedesche. Non c'è più bisogno di spendere una parola per confutare il fascismo morto nella coscienza di tutti gli italiani. Ma se il fascismo ha cessato di essere una forza di per sé stessa efficiente, non sono però dileguate come per miracolo le forze, gli interessi, gli uomini che per un ventennio hanno sostenuto il fascismo.

Queste forze sono il capitalismo parassitario allevato col protezionismo ed ingrassato nella pacchia autarchica, la borghesia agraria vissuta sui profitti del dazio sul grano, i militaristi professionali, gli avventurieri nazionalisti, i deliranti epigoni piccolo borghesi del dannunzianesimo, insomma la feudaltà borghesi col il loro codazzo di clienti e di dilettanti dell’imperialismo, tutte e tutti annidati dietro la monarchia sabauda. Codeste forze reazionarie in agguato costituiscono una perenne minaccia per la democrazia italiana, la quale sarà repubblicana o non sarà, e o affronterà decisamente la lotta oppure perirà lasciando sussistere soltanto la tragica alternativa del terrore nero o del terrore rosso>>. Le ripercussioni interne furono profonde e si aprì un solco tra la direzione e le frange più intransigenti del partito, soprattutto operaie e zoccolo duro della resistenza, tanto che ancora nel dopoguerra, fino alla fine degli anni settanta la legittimità di quella scelta sarà oggetto di feroci dibattiti tra antifascisti e non, nelle sezioni, federazioni giovanili, sindacati, cral e, non di meno, nelle riunioni familiari di militanti; in queste ultime forse si ebbero i momenti più veri ed autentici poiché miti e leggende non potevano attecchire. Per il Partito Socialista, che accettava tatticamente la collaborazione al governo in nome della lotta contro il nazifascismo, il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica non poteva in alcun modo comportare l’abbandono della linea rivoluzionaria. L’Esecutivo socialista dichiarava apertamente che la monarchia e i suoi rappresentanti – pur transitoriamente tollerati – dovevano essere esclusi dalla nuova legalità politica. In tal senso, Avanti! rifiutava ogni forma di subalternità alla diplomazia sovietica o angloamericana, riaffermando la centralità dei Comitati di Liberazione Nazionale come espressione legittima della sovranità popolare. Del resto, i “criminali di guerra” * andavano quanto meno processati e non metterli a capo di governi di larghe intese, da qui l’irrilevanza politica della sceneggiata di piazzale Loreto la cui funzione prodromica alle violenze future che scossero l’Italia poteva, anzi doveva, essere risparmiata alle nuove generazioni di Italiani. Il compromesso di Napoli è dunque il punto in cui si consuma – ma non si risolve – il nodo della sovranità democratica. La mancata epurazione delle istituzioni monarchiche e militari, l’inclusione di ministri espressione del vecchio ordine, e l’accantonamento della questione istituzionale segnarono la continuità dello Stato più che la nascita di uno Stato nuovo. Le forze socialiste e radicali denunciarono questa soluzione come una “transazione della transazione”, che rischiava di sacrificare la rivoluzione democratica sull’altare della diplomazia internazionale. In prospettiva storica, la crisi di Napoli assume i tratti di una biforcazione: da un lato la strada della Repubblica sociale fondata sul lavoro e sulla giustizia; dall’altro, la via della restaurazione liberale, camuffata da unità nazionale, destinata a congelare le aspirazioni rivoluzionarie in una democrazia parlamentare fragile. La partecipazione di figure come Togliatti o Croce può quindi essere letta come un tentativo – riuscito sul breve termine – di garantire stabilità alla transizione. Ma il prezzo fu la rinuncia a un’autentica fondazione popolare del nuovo Stato. La montagna partorì il topolino. Napoli 1944 non è dunque un semplice passaggio istituzionale, ma la cartina al tornasole di una tensione profonda e tuttora irrisolta tra rivoluzione e compromesso, tra popolo e Stato. Ed è in quella tensione che va cercata, ancora oggi, l’origine delle fragilità della nostra democrazia repubblicana, le causa della mancata realizzazione piena della Carta costituzionale, oggi più che mai oggetto di inaudita violenza.

                                                                                                                                                     

 Luigi Speciale

 

*Pietro Badoglio avrebbe dovuto essere sottoposto a un procedimento giudiziario, così come promesso dagli Austriaci in caso di cattura, anziché essere nominato Marchese di Sabotino dopo la pavida fuga da Caporetto, o addirittura capo del governo il 25 luglio 1943, dopo la destituzione di Mussolini. (Delle dodici pagine riguardati il comportamento di Badoglio degli atti della commissione parlamentare formata dopo Caporetto si persero quasi subito le tracce).

Ecco le principali motivazioni giuridiche:

  1. Complicità nel regime fascista: Badoglio fu uno degli artefici della guerra d’Etiopia (1935-36), durante la quale l’esercito italiano fece uso di armi chimiche contro la popolazione civile — un atto che, già all’epoca, violava le Convenzioni internazionali (Protocollo di Ginevra del 1925). Tali condotte potrebbero configurarsi come crimini di guerra.
  2. Responsabilità nella repressione interna: Badoglio partecipò alla repressione di moti antifascisti e fu pienamente coinvolto nell'apparato militare fascista, sostenendo attivamente le politiche belliche e coloniali del regime.
  3. Assenza di discontinuità democratica: La sua nomina fu decisa da Vittorio Emanuele III, che cercò un cambio di regime senza una reale rottura istituzionale. Si trattò di una soluzione di continuità all'interno dello stesso sistema autoritario, non di una cesura costituzionale in senso democratico. La nomina di Badoglio fu in netto contrasto con i principi di responsabilità penale individuale e di giustizia post-bellica che sarebbero poi stati affermati a Norimberga.
  4. Violazione dei principi di accountability e rule of law: La legittimazione politica concessa a Badoglio privò di valore la responsabilità personale per gli atti compiuti nel quadro del regime fascista e rinviò sine die un necessario processo di giustizia e verità.

Conclusione:
Dal punto di vista del diritto internazionale umanitario e della responsabilità politica e morale, Badoglio non avrebbe dovuto essere posto a capo del governo, ma sottoposto a un’indagine penale per le sue azioni pregresse. La sua nomina fu frutto di un compromesso di palazzo volto a salvaguardare la monarchia e garantire una transizione controllata, più che a rendere giustizia alle vittime del fascismo.

 

Fonti:

  • Avanti!, “La politica socialista dopo la crisi governativa di Napoli”, 30, 15 maggio 1944.
  • Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino: Einaudi, 1989, 33.
  • Palmiro Togliatti, La svolta di Salerno, Roma: Editori Riuniti, 1972.
  • Mimmo Franzinelli, Il prezzo della democrazia, Milano: Mondadori, 2010, 124-130.
  • Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Torino: Einaudi, 1993, 211.
  • Bertoldi, Silvio. L’Italia nella tempesta. Milano: Rizzoli, 1974.
  • Mack Smith, Denis. Il principe del Machiavelli. Vita del re Vittorio Emanuele III. Bari: Laterza, 1983.
  • Pavone, Claudio. Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Torino: Bollati Boringhieri, 1991.
  • Comitato di Liberazione Nazionale. Il processo a Badoglio. Opuscolo clandestino, 1944.
  • Archivio Centrale dello Stato, Fondo Presidenza del Consiglio – Serie Badoglio.

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